La malattia di Alzheimer è una sindrome a decorso cronico e progressivo che colpisce circa il 5% della popolazione al di sopra dei 65 anni. L’inizio è generalmente insidioso e graduale, il decorso lento e la durata media di malattia è di 8-10 anni dalla comparsa dei sintomi. L’Alzheimer rappresenta la causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei paesi occidentali nonché una delle maggiori cause di disabilità nella popolazione generale. Il rischio di contrarre la malattia aumenta con l’età: si stima che circa il 20% della popolazione ultra-ottantacinquenne ne sia affetta. Esistono tuttavia rari casi in cui la malattia esordisce in età precoce, ovvero prima dei 65 anni.
La malattia di Alzheimer si manifesta attraverso sintomi cognitivi (difficoltà di memoria e di linguaggio, di riconoscimento di oggetti, disorientamento), funzionali (difficoltà nello svolgere le attività della vita quotidiana) e comportamentali (agitazione, ansia, depressione) che con il tempo peggiorano. Quindi la persona malata con il progredire della malattia necessiterà di un’assistenza sempre più intensa e continua. D’altra parte i familiari dovranno pianificare le modalità assistenziali più adeguate secondo le diverse fasi della malattia. Questa malattia si differenzia dal normale declino della funzionalità cognitiva dovuta all’età, in quanto quest’ultima è più graduale e associata a minore disabilità sul piano funzionale.
La malattia di Alzheimer prende il nome dal neurologo tedesco Alois Alzheimer che nel 1907 ne descrisse per primo le caratteristiche. Il tessuto cerebrale dei soggetti da lui osservati presentava riduzione della cellule nervose e placche senili visibili anche a occhio nudo. Successivamente, con l’utilizzo di procedure di osservazione microscopica con colorazioni chimiche, evidenziò su porzioni predefinite di cervello la presenza di ammassi proteici non degradabili e solubili che compromettono la funzionalità cerebrale. La malattia evolve quindi attraverso un processo degenerativo che distrugge lentamente e progressivamente le cellule del cervello e provoca un deterioramento irreversibile di tutte le funzioni cognitive superiori, come la memoria, il ragionamento e il linguaggio, fino a compromettere l’autonomia funzionale e la capacità di compiere le normali attività quotidiane.
Eziologia
L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che si caratterizza per il progressivo deterioramento delle funzioni cognitive accompagnato da alterazioni nel comportamento, nella personalità e nella affettività della persona che ne viene colpita. Ha un’eziologia multifattoriale, ovvero, più fattori di natura diversa, che apparentemente non sono in diretto collegamento tra loro, che concorrono ad innescare il processo degenerativo del cervello.
Dal punto di vista fisiopatologico, la malattia di Alzheimer si caratterizza principalmente per la presenza nel cervello di minuscole ma numerosissime placche di beta-amiloide (Aβ) e grovigli neurofibrillari di proteina tau-iperfosforilata (p-tau). La proteina tau-iperfosforilata e la beta-amiloide (nello specifico la variante Aβ42) sono proteine prodotte dal cervello che quest’ultimo non riesce più ad eliminare. Entrambe queste proteine quindi si accumulano e iniziano a danneggiare i neuroni (le cellule del nostro cervello) già molti anni prima che compaiano i disturbi di memoria. La morte cellulare ha inizio in una regione del cervello che si chiama ippocampo. L’ippocampo si trova nel lobo temporale ed è primariamente coinvolto nei processi di apprendimento e di memoria. Successivamente la morte cellulare si estende coinvolgendo l’intero cervello e comportando le ulteriori difficoltà cognitive e funzionali che si osservano nelle persone affette da Alzheimer.
Il meccanismo alla base della formazione delle placche amiloidi e dei grovigli neurofibrillari non è ancora del tutto noto. Ciò che si sa è che comportano danneggiamento e morte delle cellule cerebrali, provocando come conseguenza, le difficoltà di memoria ed alterazioni comportamentali. Ulteriori ipotesi includono la presenza di oligomeri di beta-amiloide i quali, come le placche amiloidi, sarebbero anch’essi potenzialmente neurotossici. Inoltre, l’anomalo rilascio di neurotrasmettitori, come il glutammato, contribuirebbe anch’esso a morte neuronale e processi infiammatori all’interno del cervello. Il processo neuro-infiammatorio risulta essere allo stesso modo coinvolto nella complessa cascata di processi che causano la malattia di Alzheimer e i successivi sintomi. Questo processo risulta essere quindi implicato sia nella patogenesi della malattia di Alzheimer che nella sua progressione.
Modello di progressione dei biomarcatori di Clifford R. Jack e colleghi (2010; 2013)
Clifford R. Jack e i suoi colleghi hanno proposto un modello per la malattia di Alzheimer basato sui biomarcatori di malattia, partendo dall’assunto che questi riflettano specifici processi fisiopatologici sottostanti la malattia stessa. I biomarcatori considerati possono essere classificati in due grandi categorie:
- Misure del deposito di Aβ nel cervello: (1) decremento dei livelli di Aβ42 nel liquido cerebrospinale e (2) incremento dei livelli di Aβ42 nel cervello rilevati alla PET con tracciante per l’amiloide.
- Misure di neurodegenerazione: (1) incremento del livello di tau-totale (t-tau) e tau-iperfosforilata (p-tau) nel liquido cerebrospinale, (2) ipometabolismo misurato attraverso tomografia a emissione di positroni con fluorodesossiglucosio (FDG-PET), (3) atrofia medio-temporale rilevata tramite Risonanza magnetica strutturale (RMN).
Il modello ipotizza che siano i livelli di beta-amiloide, nel liquido cerebrospinale e nel cervello, a risultare alterati per primi e ad avere inizio quando ancora la persona non manifesta alcun sintomo cognitivo. In seguito si osservano valori alterati di tau nel liquido cerebrospinale e successivamente ipometabolismo e atrofia cerebrale. I sintomi cognitivi sono associati in modo diretto con i fenomeni di neurodegenerazione e ne seguono la progressione. Il modello spiega quindi la mancanza di correlazione diretta tra i sintomi clinici e il deposito di beta-amiloide e il motivo per il quale i sintomi cognitivi continuino ad evolvere nonostante l’accumulo di beta-amiloide tenda a stabilizzarsi.
Fattori di rischio e di protezione
I fattori di rischio associati alla malattia di Alzheimer vengono divisi in due categorie: fattori di rischio non modificabili e fattori di rischio modificabili. Mentre sui primi non è possibile agire, sui secondi è possibile intervenire ottenendo dei significativi risultati sul piano clinico.
Fattori di rischio non modificabili
Uno dei fattori di rischio non modificabili è rappresentato dall’età. Con l’avanzare dell’età incrementa anche il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer. La maggior parte delle persone sviluppa l’Alzheimer dopo i sessantacinque anni e, da questo momento, l’incidenza di malattia incrementa in modo esponenziale fino a circa ottanta anni. Un secondo fattore di rischio è rappresentato dalla genetica. Alcune forme di demenza sono definite sporadiche, cioè si manifestano senza ereditarietà tra le generazioni di una famiglia. Altre forme invece, denominate familiari, si manifestano in due o più persone appartenenti allo stesso nucleo familiare. Queste ultime possono essere causate da una mutazione genetica che può essere trasmessa dal genitore al figlio con una probabilità del cinquanta per cento. Un altro fattore genetico di suscettibilità è legato al gene APOE. Una sua specifica variante conferisce un rischio aumentato di sviluppare la malattia di Alzheimer, ma non la assoluta certezza.
Fattori di rischio modificabili
La letteratura continua a mostrare un grande interesse verso i fattori di rischio modificabili. I principali fattori di rischio modificabili sono associati allo stile di vita: il fumo di sigaretta, l’assunzione di alcol, la carenza di vitamine, la scarsa attività fisica o altre attività di svago (fisiche, mentali, sociali). Il diabete, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione, l’obesità e la dislipidemia rappresentano altri fattori di rischio associati all’Alzheimer così come una storia positiva per traumi cerebrali, patologie cerebrovascolari, vasculopatie. Una bassa scolarità e uno stile alimentare poco sano sono anch’essi associati ad un maggior rischio di sviluppare la malattia.
I fattori di protezione rappresentano l’altra faccia della medaglia. Tra essi è possibile citare l’assenza di familiarità per la malattia e il possedere un particolare genotipo, l’alta scolarità, l’aderire ad uno stile alimentare sano, ben rappresentato dalla dieta mediterranea, il mantenere allenati fisico e cervello, il mantenere delle buone relazioni sociali, il monitorare e trattare eventuali problematiche cardiovascolari. In assenza di cure e non potendo agire sui fattori di rischio non modificabili, appare quindi di fondamentale importanza promuovere la riduzione del rischio intervenendo su questi ultimi fattori.