La malattia di Alzheimer colpisce la memoria e le funzioni cognitive: si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare, ma può causare anche altri problemi fra cui stati confusionali, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale.
Le persone affette da questa patologia necessitano di aiuto e assistenza da parte di chi si prende cura di loro (caregiver) in modo progressivamente più intenso con l’evolversi della demenza. I familiari devono, quindi, pianificare le modalità assistenziali più adeguate alle diverse fasi della malattia.
Sentimenti diffusi nei caregiver riguardano un forte senso di impotenza e una difficoltà a riorganizzare i propri impegni personali in base alle necessità via via più gravose del proprio assistito. Diventa, dunque, fondamentale mantenere un rapporto continuativo con il medico di fiducia, lo specialista o la struttura clinica di riferimento, in modo da potersi confrontare con personale esperto; ciò permette di essere supportati rispetto alla gestione dei problemi quotidiani e assistenziali. Non solo, rimanere in collegamento con i professionisti è importante anche per ottenere informazioni, conforto e consigli professionali nei momenti di frustrazione.
Conoscere il più possibile le fasi della malattia e i disturbi ad essa associati e dare il giusto nome ai segnali che il malato invia aiuta a non farsi sopraffare dalla patologia stessa.
Di seguito sono descritti i problemi più frequenti che si incontrano nel decorso della malattia.
I disturbi del linguaggio
Le difficoltà di linguaggio riguardano la capacità di produrre e comprendere messaggi e possono manifestarsi in modo diverso da persona a persona, sia per la rapidità di progressione che per il momento di insorgenza. In linea di massima, inizialmente il malato ha difficoltà a trovare la parola giusta, può non ricordarsi cosa stava per dire e non riesce a seguire la conversazione tra più persone. Con l’aggravarsi della malattia, la persona può diventare ripetitiva, può dimenticare parole semplici o sostituirle con altre improprie, rendendo difficile la comprensione per chi ascolta. Può faticare molto ad intrattenere attivamente una conversazione, soprattutto per la difficoltà a tenere a mente ciò che è stato detto e a comprendere il senso anche di frasi elementari. Perciò, nelle fasi avanzate della malattia acquistano rilievo e importanza le modalità non verbali di comunicazione: lo sguardo, il contatto fisico, il tono di voce.
Come comunicare efficacemente con il malato: dalla parola alla carezza.
La persona con demenza, con l’avanzare della malattia, potrebbe non essere in grado di recepire correttamente quanto gli venga detto. La consapevolezza di tale difficoltà di comprensione è molto frustrante per il malato. Diviene quindi importante che il caregiver adatti continuamente, con elasticità e sensibilità, le proprie modalità comunicative, parlando con chiarezza e molto lentamente, usando frasi affermative, brevi, semplici, concrete e accompagnando con la gestualità il linguaggio verbale.
Quando il soggetto con demenza commette degli errori, spesso è difficile stabilire se questi siano da imputare all’incapacità di svolgere una determinata attività o alla mancata comprensione della consegna. In entrambi i casi il caregiver dovrebbe astenersi dal sottolineare tali défaillance e dall’accusare il malato di mancanza di volontà o di impegno per evitargli inutile umiliazione e sofferenza.
Anche quando la comunicazione verbale è molto compromessa, i pazienti con demenza sono in grado di recepire i messaggi non verbali e la vicinanza emotiva, perciò i familiari possono sempre contare su questo canale comunicativo per trasmettere loro affetto e vicinanza.
I sintomi auto-riferiti
Il paziente che inizia a prendere coscienza della riduzione delle sua capacità di memoria e di quanto ciò influisca sulle sue attività quotidiane sia personali che professionali può avere reazioni emotive diverse. Una delle più tipiche è quella di attribuire le sue incapacità ad una serie di sintomi più o meno costanti ed omogenei nel tempo.
L’uomo abituato a gestire le proprie finanze con efficienza e puntualità, di fronte alle sue mancanze, dirà, ad esempio, che è tutta colpa di quel fastidioso mal di testa che da un po’ di tempo lo tormenta e gli impedisce di concentrarsi. Il mal di testa si potrà in altri momenti trasformare in vertigini, difficoltà a prender sonno, preoccupazioni ricorrenti o in altri disturbi. Si tratta, infatti, di sintomi da conversione somatica attraverso i quali il paziente traduce e manifesta il proprio disagio psicologico nel prendere coscienza dei suoi attuali problemi.
Come gestirli?
È importante che chi si prende cura del malato interpreti i sintomi auto-riferiti come un meccanismo di difesa messo in atto per celare la propria disabilità.
Alla luce di ciò, è bene dunque comprendere questi momenti, non contraddire il paziente quando tenta di giustificare i propri deficit ed accettare con pazienza le sue difficoltà. Inoltre, di fronte agli errori quotidiani che potrebbero scoraggiarlo, è opportuno che il caregiver non sottolinee le sue incapacità, ma, piuttosto, quanto sia riuscito a svolgere. Invitarlo a collaborare (senza mai sostituirsi del tutto a lui) e strutturare la giornata seguendo una routine predeterminata sono modalità che rassicurano il paziente facendolo sentire ancora “padrone” della sua quotidianità.
Poiché il non permettere l’allenamento delle abilità residue ne favorisce il progressivo esaurimento, è necessario stimolare il malato a fare da solo le cose che ancora è in grado di fare, dandogli piccoli incarichi e responsabilità. L’impegno in attività quali piegare il bucato, riordinare vecchie fotografie, passare l’aspirapolvere, annaffiare le piante e il loro esito positivo gratificano il paziente e gli permettono di continuare a sentirsi utile e ancora competente.
Deliri
Uno degli eventi più comuni ai pazienti nelle fasi iniziali della demenza è quello di dimenticare dove sono stati messi gli oggetti (es. chiavi, occhiali …) e non riuscire a trovarli al momento del bisogno. La reazione più tipica a questo evento è dire che sono stati loro nascosti o rubati. In termini tecnici quest’ultimo comportamento è chiamato “delirio di latrocinio” ed è un modo di negare a se stessi e agli altri la propria incapacità di ricordare. Generalmente, i deliri di questo tipo sono ben strutturati e il paziente crede veramente di essere stato derubato; si tratta, però, di una manovra difensiva estrema per contrastare il disagio derivato dalla presa di coscienza dei propri deficit.
I deliri si possono strutturare in “deliri di gelosia”, che si manifestano con un’attenzione morbosa nei confronti delle persone care, in particolare il partner, sulle quali vengono proiettati i propri cambiamenti d’abitudine o di carattere.
Quando, ad esempio, sarà troppo difficile per il paziente ammettere di essere diventato irascibile, impaziente, più difficile da sopportare a causa dell’aggravamento della malattia, sarà più facile per lui incolpare il familiare e tacciarlo di essere cambiato, più nervoso e meno amorevole.
Un altro tipo di delirio piuttosto frequente è denominato “delirio di megalomania”: il paziente sente di non essere più pienamente padrone di se stesso e della propria vita e può prendere decisioni avventate (es. regalare o devolvere denaro, in proporzione anche superiore alle proprie possibilità, vendere o acquistare immobili …) rischiando di sperperare i risparmi di una vita o di cadere preda di approfittatori o disonesti.
Cosa fare in questi momenti?
Tenendo presente che il delirio è una modalità difensiva del malato, è importante acquisire la capacità di cogliere il significato comunicativo di tale disturbo; per fare ciò, la credenza delirante del paziente non va contrastata, negata o ridicolizzata, ma è opportuno rassicurare la persona rispetto a queste paure, in modo da fargli sentire che non è da solo ad affrontare queste situazioni minacciose.
Nello specifico,
- Quando il paziente si fa sospettoso ed accusa le persone che gli stanno vicino di aver nascosto/rubato i suoi oggetti, è opportuno mantenere la calma e non arrabbiarsi. Inoltre i familiari dovrebbero spostare l’attenzione sull’oggetto (dove potrebbe essere e dove è stato visto l’ultima volta) in modo da aiutare la persona a ritrovare le proprie cose “perdute” e, quindi, a tranquillizzarsi.
- Quando il malato, in preda a deliri di gelosia, rimprovera e colpevolizza il coniuge, è necessario, sebbene sia molto difficile dal punto di vista emozionale, comprendere che le offese e le accuse che la persona esplicita non sono consapevolmente formulate. Sarebbe dunque opportuno non arrabbiarsi e non ribattere, ma rassicurare il proprio caro del fatto che gli si vuole bene e che l’eventuale “nervosismo” da lui percepito è dovuto alle piccole sfide della vita quotidiana.
- Nei casi in cui il paziente è spinto a sperperare il denaro in quanto preda di un delirio di megalomania, è bene persuaderlo a consigliarsi con il familiare sull’amministrazione delle proprie finanze; si tratta del primo passo verso una delega, che, nella maggior parte dei casi, diviene in breve necessariamente completa. Questa prima fase di “passaggio delle consegne” deve essere curata in modo particolare onde evitare di far sentire il paziente incapace. Si può, ad esempio, farlo riflettere su quanto sia più comodo avere qualcuno che si occupi delle scadenze e avere la pensione direttamente accreditata sul conto corrente, piuttosto che doversi recare personalmente all’ufficio postale, con tutti i disagi che può comportare doversi muovere a una certa età, facendo code e rischiando di essere derubati.
Dal momento che la caratteristica principale dei malati di demenza è il declino delle abilità necessarie ad affrontare la vita quotidiana, è importante che, fin dalla diagnosi, vengano avviate le procedure atte a consentire ad un’altra persona di agire per conto del paziente nell’ottica di preservarne gli interessi. Per fare questo, il paziente stesso può presentare l’istanza al giudice tutelare, il quale entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta provvede alla nomina dell’amministratore di sostegno. L’attività dell’amministratore di sostegno, i cui poteri aumentano con l’aggravarsi della malattia, è quella di aiutare il malato ad affrontare alcuni problemi (come acquistare, vendere, investire denaro, …) in modo da permettere la piena realizzazione dei suoi diritti.
La negazione
Una delle modalità più tipiche adottate nei confronti della condizione di malattia da parte dei pazienti è la negazione. Si tratta, anche in questo caso, di un meccanismo di difesa estremo che intende salvaguardare l’integrità dell’individuo, negando completamente la realtà di malattia. Il paziente, in questo modo, tutela la propria identità ed integrità personale autoconvincendosi di star bene e proiettando sugli altri i propri problemi, dicendo “non ho niente, sono solo stanco e un po’ distratto“.
Cosa fare?
Quando il paziente nega i suoi deficit, il familiare può avere l’impressione di preoccuparsi senza motivo o in modo eccessivo, ma ciò che può trarre in inganno è proprio il fidarsi della capacità di giudizio del paziente. È bene, quindi, che il familiare si affidi al proprio giudizio personale nel valutare l’evoluzione dei problemi del malato, così come l’opportunità di farlo valutare da personale specializzato. Ci si può stupire di quanto, anche nelle fasi inziali di malattia, un paziente possa accanirsi nel negare i propri sintomi. La negazione non è un indice di peggioramento della malattia ed è bene che non venga contrastata; è più funzionale capirla e attenuarla, rispondendo ai bisogni di rassicurazione e protezione del paziente.
A questo proposito, una delle sfide che il familiare si trova ad affrontare riguarda il fatto che il paziente non riconosca le sue difficoltà legate alla capacità di guidare. Infatti, le abilità cognitive cruciali per una guida sicura vengono meno con l’insorgenza dalla patologia, quindi, le persone con demenza dovrebbero smettere di guidare già nelle prime fasi della malattia. Non esistono regole precise per fronteggiare questo problema. In linea di massima, è opportuno che i familiari facciano sentire il paziente un passeggero attivo in ogni viaggio, chiedendogli, ad esempio, di sistemare il volume dell’autoradio o consigli riguardo al percorso; in questo modo possono aiutare il malato a sentirsi ancora utile e competente nello svolgimento di attività importanti.
L’attaccamento patologico
Il senso di insicurezza che si accompagna alla progressione di malattia può portare il paziente alla sensazione di una totale incapacità di gestire la propria vita e questo può indurlo ad una totale dipendenza dai familiari, anche per le cose più semplici che ha sempre fatto e che ancora saprebbe fare autonomamente. Ad esempio, il malato può sentire il bisogno di essere accompagnato ovunque e non tollerare che il familiare si allontani senza di lui neanche per poco; quindi, lo assillerà continuamente con domande insistenti su dove debba andare e perché, facendo scenate per ritardi inesistenti o insignificanti. Questo, come in un circolo vizioso, aumenta ancora di più la disabilità e la dipendenza ed è estremamente controproducente in quanto aggrava ed accelera i processi di regressione tipici della malattia. Inoltre, tale atteggiamento rende estremamente pesante la quotidianità dei familiari che si sentono caricati in ogni momento della responsabilità della cura e dell’assistenza.
Come comportarsi?
L’atteggiamento che il familiare dovrebbe mantenere di fronte alle continue richieste e alle domande del malato dovrebbe essere rassicurante, paziente ed accogliente. Alle sue pretese va risposto con gentilezza, chiarezza e con frasi brevi. Utilizzando parole chiave e senza perdersi in prolisse argomentazioni.
Prendersi quotidianamente cura di una persona con demenza diventa, con il progredire della malattia, sempre più gravoso per il familiare. La persona che assiste il malato non deve esitare a chiedere un aiuto assistenziale intrafamiliare oppure esterno attraverso una forma di supporto domiciliare o di brevi ricoveri. Il caregiver principale non deve diventare esclusivo, ma deve potersi concedere dei momenti per vivere altri ruoli relazionali importanti e per dedicarsi a se stesso e ai propri interessi. Deve imparare a valutare realisticamente le sue forze ed ha il dovere e il diritto di condividere i problemi con il resto della famiglia. Solo non vergognandosi ad ammettere le proprie difficoltà e sentendosi libero di cercare sollievo morale parlando con qualcuno in grado di ascoltare, il caregiver potrà rendere qualitativamente migliore l’assistenza prestata al suo caro.
I disturbi comportamentali
È possibile che la persona affetta da demenza, a fianco della progressiva perdita di autonomia e delle proprie facoltà mentali superiori, mostri dei disturbi di tipo comportamentale: ansia, agitazione, aggressività e in alcuni casi disinibizione o manifestazioni di tipo psicotico (deliri, allucinazioni o comportamenti auto o etero-lesionisti).
Come affrontarli?
Per poter gestire al meglio questi disturbi è sempre opportuno rivolgersi al proprio medico di fiducia che sarà in grado di consigliare la miglior terapia per i sintomi specifici del paziente e di fornire gli opportuni suggerimenti. Anche se oggi esistono validi trattamenti farmacologici che possono controllare i problemi più gravi, ad essi vanno sempre affiancati comportamenti mirati da parte dei familiari/caregiver.
Innanzitutto, il familiare/caregiver deve sempre tenere presente che questi atteggiamenti non sono intenzionali ma sono sintomi della malattia e derivano dalla progressiva incapacità del malato di comprendere e gestire la quotidianità. In linea di massima, il familiare, oltre a mostrarsi sempre disponibile e comprensivo, deve diventare per il paziente un punto di riferimento pronto a spiegargli con chiarezza e pazienza le situazioni ed a tranquillizzarlo rispetto alle sue preoccupazioni e paure.