Il Patto della salute tra Regioni e Governo introduce la figura a fianco dei medici: lavoreranno negli studi e nelle strutture per assistere pazienti fragili e non autosufficienti promuovendo anche gli stili di vita.
La scommessa per far fronte all’emergenza cronicità che attanaglia l’Italia è quella di attivare microteam di cura sul territorio gestiti dal medico e dalla nuovissima figura dell’infermiere di famiglia. Saranno loro ad assistere da vicino i pazienti alleggerendo il carico per gli ospedali.
Una scommessa fatta propria dal ministro della Salute Roberto Speranza che l’ha appena inserita nel nuovo Patto per la salute siglato con le Regioni il 18 dicembre scorso, ma che fino a oggi si è tradotta in realtà solo a sprazzi nel Paese. Eppure «l’invecchiamento della popolazione con l’inversione della piramide demografica è il dato da cui partire per costruire il servizio sanitario di domani – avvisa il ministro – e il territorio è la chiave per affrontare e assistere le cronicità. Questo è l’orizzonte su cui dobbiamo lavorare nei prossimi anni».
La bomba cronicità e non autosufficienza
Fino a oggi una riforma organica è mancata, così come una dotazione di personale adeguata. Mentre alla partita cronicità e non autosufficienza andrebbe dedicato un piccolo esercito di professionisti esperti: nei prossimi dieci anni ben otto milioni di anziani saranno cronici gravi e di questi la metà vivranno da soli. La cronicità riguarda oggi più di 24 milioni di persone in Italia: un’emergenza che è anche planetaria tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato il 2020 «anno dell’infermiere» guardando a questa figura come alla chiave per raggiungere gli obiettivi di copertura sanitaria universale e raccomandando di rimpolpare gli organici.
Le stime del personale
A stimare il numero di infermieri che mancano per le cure primarie in Italia è la Fnopi, la Federazione nazionale degli infermieri: ne servono uno ogni 500 assistiti e cioè oltre 30mila in tutto. Di questi, 20mila infermieri di famiglia o di comunità previsti nel Patto per la salute, uno ogni 3mila cittadini circa. Questa tipologia di infermiere – spiegano dalla Federazione – dovrebbe intervenire a domicilio ma anche nelle case della salute, negli ospedali di comunità e nei distretti per gestire le persone con problemi di fragilità in collaborazione con i medici di famiglia, registi del micro team.
Le sperimentazioni
Non siamo all’anno zero: quasi 6mila infermieri già formati dai primi corsi universitari sono al lavoro nelle Regioni come Lombardia, Toscana e Piemonte che ne hanno deliberato l’introduzione nei loro servizi sanitari, o in altre come il Friuli Venezia Giulia, la Puglia e la Valle d’Aosta che hanno avviato sperimentazioni. Il nuovo Patto salute dà però finalmente il via a un’omogeneizzazione dei percorsi e soprattutto alla loro attivazione in tutto il Paese: «Con il Patto della salute – spiega la presidente Fnopi Barbara Mangiacavalli – avremo finalmente la strategia nazionale che chiediamo da anni. Ma per arrivare a coprire tutto il territorio ora la figura dell’infermiere di famiglia va inserita a pieno titolo nella programmazione del fabbisogno formativo che negoziamo con ministero e Regioni per avere i primi effetti tra cinque-sei anni, considerando i tempi della formazione».
L’identikit dell’infermiere di famiglia
L’identikit dell’infermiere di famiglia è intanto tracciato nelle linee guida pronte sui tavoli della Fnopi che individuano tre livelli di attività: ambulatoriale, per i pazienti a medio-bassa complessità; domiciliare, per bisogni di cura più intensi, bassi livelli di autonomia e “tutoraggio” a familiari e badanti; sociale, con il sostegno all’integrazione socio-sanitaria. L’obiettivo in tutti i casi è potenziare l’autonomia possibile con le cure ma anche con l’anticipazione dei bisogni, cooperare con il medico in micro-équipe evitando il ricovero finché è possibile. L’infermiere di famiglia è in prima linea anche nel promuovere l’aderenza alla riabilitazione e all’assunzione dei medicinali, attuando quella “sanità d’iniziativa” capace di migliorare gli stili di vita non solo del paziente ma di tutto il nucleo familiare. «Il microteam dove già c’è funziona molto bene – afferma il presidente della Federazione nazionale dei medici Filippo Anelli -. Stimolare la sinergia tra i professionisti sanitari è una carta vincente per ottimizzare le cure, ora si tratta di dare al territorio i numeri che servono»